PALAZZINA LAF : QUANDO IL FILM DENUNCIA POI TANTO DENUNCIA NON FA’

Il film pluri-premiato ai David di Donatello con la regia di Michele Riondino racconta ma non denuncia in maniera decisa, il mio pensiero ve lo spiego qui sotto

Dopo la pandemia la macchina del cinema è ripartita in maniera costante, facendo risaltare idee e scritture di tanti registi e sceneggiatori italiani in giro per il mondo.

I nostri film vanno per la maggiore , spaziando dal bianco e nero cortellesiano al drammatico quando veramente di denuncia Io Capitano di Matteo Garrone.

Tra un racconto post bellico sul cambiamento del ruolo femminile all’interno della nostra società e il racconto duro e crudo di un viaggio tragico di migranti verso coste di maggior sicurezze si incastra l’italianissimo Palazzina Laf che racconta le storie dei destini lavorativi dei dipendenti dissidenti dell’acciaieria Ilva di Taranto .

Niente da dire sulle interpretazioni magistrali di Elio Germano e di Michele Riondino che si avallano di spalle molto molto idonee ai soggetti descritti creando una sorta di disagio continuo nello spettatore al passare dei minuti del film.

Il dirottamento a confinio dei dipendenti , soprattutto nelle grandi aziende , purtroppo è un pratica molto italiana e molto in atto, insieme ad altre vessazioni per coloro che risultano restii a cambiamenti contrattuali o a altre ingiustificate azioni da parte di proprietà sempre più distanti e sempre più protette in queste opere di ricerca dei risultati, mole di lavoro a sicurezza zero e delocalizzazioni all’ordine del giorno.

Ma la storia del “soldato semplice ” Caterino Lamanna poteva creare molto più fastidio ad un azienda che ancora adesso agisce in una sorta di riorganizzazione che sembra obbligatoria (visti i numeri di dipendenti ancora a libro paga ormai in cassa integrazione dopo l’acquisto da parte di Arcelor Mittal e le parallele scelte da parte dei vari tribunali che hanno fermato produzione e conseguente rilancio a livello internazionale).

Nel film, non si parla di mobbing più di due minuti, anzi sembra quasi, alimentando il pensiero dei tanti dipendenti ancora convinti che l’acciaieria sia la loro unica ancora di salvezza, che nella palazzina Laf qualcuno ci sia andato da lavativo e non da emarginato.

Non si fa riferimento nemmeno ai danni ambientali (se non nella scena della morte della capretta) che la zona ha dovuto subire e sta continuando a subire e soprattutto ri-inizierebbe a subire qualora ci fosse una riapertura della fabbrica.

La parte processuale della storia dura la bellezza di 30 secondi per poi sfumare su un Lamanna che si dichiara colpevole di aver avallato le decisioni dirigenziali a discapito dei colleghi e con un paio di colpi di tosse sintomo chiaro che il triste epilogo stia lentamente arrivando anche sul suo corpo.

Non riusciamo a capire perché non si è denunciato il reale stato di degrado e di condizioni ambientali che hanno fatto di Taranto una zona dove morivano mediamente quasi 2000 persone l’anno tutte per problemi respiratori o per tumori consoni agli effetti collaterali della polvere di amianto che si attaccava anche sulle auto cambiandone il colore neanche fosse polline in fiore.

Insomma probabilmente l’esser rimasti superficialmente sulla storia della sola palazzina Laf , trasformandola in una sorta di remake di “qualcuno volò sul nido del cuculo” almeno per la gestione delle vite dei personaggi , si è rivelata si una chiara scelta di denunciare un sopruso sui dipendenti neganti alla novazione dei propri contratti di lavoro, ma anche di portare a galla le colpe dei diretti interessati con un fare di denuncia troppo leggero per quanto grossa ne sia la problematica , non gestendo per niente parole e gerghi denunciatori (nessuna frase contente lo spauracchio “tumore” o “articolo 18″…) e lasciare ai meno informati un senso di incomprensione della storia finale … come se un finale ci fosse già… come se fosse soltanto la storia di un film e non una delle storie più inquietanti d’Italia di cui ancora tanta gente porta i segni sulla pelle.

Lascia un commento